E' dall'inizio della storia che la civiltà si fa spazio aprendo radure e spazi di luce nella foresta, infrangendo l'oscurità del mondo selvaggio.
Nella loro avanzata in Gallia, le truppe romane abbattevano le foreste per portare l'ordine romano, fatto di tenute, contadini-soldati e città mercantili. E' nota la storia della terrificante foresta sacra che fermò le armate romane, e che nessuno osava abbattere per paura della vedetta degli dei dei celti, finché Cesare non prese una scure, abbatté una quercia secolare, assumendo su di sé tutta la responsabilità del sacrilegio, quindi ordinò ai suoi uomini di abbattere tutti gli alberi. Ma - si dice - gli dei della foresta giro di pochi anni fecero risorgere il bosco, nello stesso luogo, più rigoglioso di prima.

Il terrore romano per l'oscurità della serva sarà mantenuto ed estremizzato dal cristianesimo, che rifiuta pure i boschetti sacri cari ai latini, spiana foreste e costruisce cattedrali imponenti. Perfino gli eremiti, uomini che fuggivano la città, si nascondevano nelle foreste e parlavano con gli animali, col tempo si trasformano in monaci, e i monasteri diventano il principale fattore organizzato di dissodamento delle terre, ossia di abbattimento delle foreste "selvagge".
E mentre nelle città romane prima e cristiane poi trionfa una religione della civiltà disboscata, sotto l'ombra materna degli alberi millenari si continua ad adorare la Grande Dea.
Per tutto il Medio Evo immense foreste meravigliose ricoprono il continente nell'indifferenza dei tempi. Qua e là piccoli insediamenti umani sparsi sopravvivevano con la caccia e la raccolta di quanto il bosco poteva offrire. Per il nuovo ordine sociale che si riorganizzava lentamente sulla base delle istituzioni feudali e religiose le foreste erano, per l'appunto, foris, esterno. Là vivevano i proscritti, i folli, gli amanti, i briganti, i fuggitivi, i disadattati, gli eremiti, i santi, i lebbrosi, i rivoluzionari, gli eretici, i perseguitati, le streghe, le donne perdute, gli uomini selvaggi. Ma non solo: in periodi di grande instabilità, di invasioni e di scorrerie violente da parte di popoli stranieri, sull'arco alpino (ma non solo) molte città spariscono completamente, e gli abitanti superstiti si ritirano a vivere nelle grotte, al di fuori dei sentieri battuti dalle orde di barbari, protetti dalle fronde di boschi impenetrabili.

In un famoso processo per stregoneria iniziato a Milano nel 1390, le accusate, Sibillia e Pierina, fanno esplicito riferimento alla Signora, chiamata Diana, e alle riunioni che presiede il giovedì, a cui partecipano anche gli animali a due a due, tutti meno l'asino, che porta una croce sulla groppa: la Dea insegna i segreti delle erbe che servono per curare. È la divinità che presiede alle selve, per i greci Artemide, per i romani Diana: cacciatrice e protettrice degli animali selvatici, ma anche delle partorienti. È la grande matrice del mondo, al di là delle zone abitate dagli uomini (civili): nutre i cuccioli con il latte delle proprie mammelle, è la guardiana di misteri crudeli. È l'iniziatrice alla conoscenza della natura non umana. Non la si può né vedere né avvicinare. È la matrice, la materia e la madre insieme. È lo spirito del bosco, che fa nascere un'immensità di specie, di forme, che sorveglia la vicinanza originale con la rete di corrispondenze materiali che animano la selva. Negli spazi selvaggi, non esistono differenze irriducibili. Il suo ricordo rimarrà a lungo nella memoria popolare, e molti processi alle streghe, prima che del demonio, parlano proprio di Lei. È l'archetipo della Donna Selvaggia che prende il nome di una dea, e che serve per preservare un'intera civiltà: la cultura della foresta.

Il fenomeno del vagabondaggio fuorilegge, del resto, rispecchiava l'estrema mobilità di una parte della società medioevale, la population flottante
: mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, artigiani, diffusissimi sull'intero arco alpino fino a pochi decenni fa (ogni valle si specializzava in un mestiere); carbonai, altri personaggi tipicamente alpini; monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdonatori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, trovatori, studenti itineranti che chiedevano la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori di ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri, pellegrini autentici e non, visionari, “uomini di dio”, ebrei erranti e maledetti, mendicanti veri e falsi, soldati e mercenari, scampati dai pirati o dagli infedeli, servi fuggiaschi, maestri e apprendisti. A partire dal Tardo Medio Evo si aggiungono gli zingari, arrivati dall'India attraverso una migrazione secolare. E ogni gruppo con il proprio linguaggio “corporativo” o gergo segreto (la lingua occulta), coi suoi santi, le sue cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni.
Le schiere di sbandati spinti alla ribalderia dalle guerre, dalle imposte, dalla fame, dovevano essere davvero tante: la società medioevale getta sulle strade, e nel bosco, le sue frange più deboli. Il numero degli esclusi aumenta vertiginosamente, e questa gente raggiunge - e vi si unisce fino a confondervisi - il preesistente “popolo della foresta e delle montagne”. E dove sarebbero potuti andare? Scappare dalla legge e dalla società degli uomini civili era ritrovarsi automaticamente “al monte”.
La Chiesa cristiana, che nel frattempo cercava di unificare l'Europa sotto il segno della croce, era fondamentalmente ostile alle montagne, queste barriere impassibili di natura incolta. I princìpi di identità e di non contraddizione, fondamenti della logica che presiede al pensiero dell'uomo civile, svaniscono nella foresta. Il profano si trasforma in sacro, i fuorilegge diventano i difensori di una giustizia superiore: vedi il mito di Robin Hood, diffuso sotto varie forme su tutto il continente europeo. Che la legge sia religiosa, politica, psicologica, o anche solo logica, la foresta la destabilizza. Le foreste sono al di là della legge: o meglio, fuori dalla legge. La bestialità, la caduta, il nomadismo, la perdizione: queste le immagini che la mitologia cristiana associa alla foresta e alla montagna.
Dal punto di vista teologico, i boschi rappresentano l'anarchia della materia. Essendo l'esatto contrario del mondo creato a immagine di Dio, erano considerati come gli ultimi bastioni del culto pagano. Nelle tenebrose foreste celtiche regnavano i druidi; in Germania esistevano i boschi sacri; di notte, appena fuori dalle città, assediate da vicino dalla selva sterminata, le streghe celebravano i loro riti. Antichi demoni, fate e spiriti della natura si aggiravano fra gli alberi, e la popolazione manteneva e coltivava i legami tradizionali con il passato pagano. Distruggere i boschi non significava soltanto ridurre in cenere innumerevoli secoli di crescita naturale: significava soprattutto annullare i fondamenti della memoria culturale della gente che li abitava. Infatti, disboscamento e sradicamento di alberi sacri furono attività a cui le gerarchie ecclesiastiche si applicarono devotamente e con profitto.
n Italia, il luogo in cui la memoria storica dell'antica società è rimasto più a lungo sono le Marche, regione fuori dalle grande strade commerciali e militari, coperte di montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là antiche sacerdotesse, depositarie della conoscenza magica ma anche del potere sulle proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha ospitate: i Monti Sibillini. L'organizzazione sociale e politica “sibillina”, anche dopo l'Unità d'Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso collettivo ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che facevano parte della comunità. La civiltà delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per gli intellettuali che contestavano l'organizzazione statale. Cecco d'Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal '300 al '600, dal cavaliere De La Salle ad Agrippa fon Nettesheim, da Benvenuto Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per Norcia, in Umbria, o per Monte Monaco, nelle Marche. Lì chiedevano un mulo e una guida per avventurarsi sulle montagne. E quello che trovavano non era una vecchia stravagante che leggeva la mano davanti a una grotta, ma una comunità di contadini, pastori, artigiani, tessitrici, guaritrici che vivevano secondo regole diverse da quelle che erano imposte dalle società di pianura. Quelle montagne, come le Alpi, divennero rifugio di tutti coloro che non erano d'accordo con il potere: eretici, libertari, templari sopravvissuti alle stragi di Filippo il Bello, catari, anabattisti, o semplicemente intellettuali che non accettavano l'egemonia teocratico-militare degli stati in formazione. Tutto ciò causò una feroce persecuzione nei primi anni del '300: i francescani locali accusarono le Sibille di aver preparato un avvelenamento a distanza contro Papa Giovanni XXII. E sulle montagne delle matriarche fiammeggiarono i roghi.

Non fu tanto la religione, quanto il razionalismo militante, che alla fine fece scomparire le fate e le altre creature silvestri. Se la Chiesa si era limitata a mettere in guardia contro spiriti che potevano essere pure di obbedienza satanica, il razionalismo ne negò l'esistenza, come negò quella del Diavolo e delle streghe. A scuola si imparò che erano tutte “superstizioni d'altri tempi”.
Ma le foreste oramai erano ridotte a brandelli, consumate dalla fame di legno, carbone e acciaio della civiltà industriale: fabbriche e treni, cantieri e locomotive hanno portato via gli ultimi algnoli oscuri del continente.
Trasformata in arcadico ristoro vacanziero, la foresta, ha perso il suo incantesimo. Il “popolo degli alberi” perse l'unica risorsa di cui disponeva, il rifugio in cui ritirarsi al di fuori dell'influenza dei “civili” (che erano riusciti a occupare ogni angolo), in cui vagare a proprio piacimento come gli animali selvatici. E perse Dio.

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